Quando la vita fa “crac” devi fermarti per forza.
Inutile negarlo, noi spesso la vita non la viviamo. Non in senso pieno, se per vivere intendiamo renderci conto di cosa ci succeda nel profondo, al di là dei fatti concreti.
Perchè il mondo cambia a prescindere da noi, e ci chiede di essere sempre più attenti, aggiornati, veloci. Attenti nel cogliere le novità, veloci nell’adeguarci. Spesso la vita la rincorriamo, più che altro. Al lavoro pretendono, giustamente. E nel versante privato non sempre il contesto è più tranquillo. Ma dentro di noi, c’è sempre quell’esigenza mai del tutto sopita, quella voce che ci dice che è ora di fermarci.
Perchè fermarci ? Per riposare, probabilmente, tirare un po’ il fiato da quel ritmo così serrato. Per capire meglio dove si è, e possibilmente dove si sta andando. Ma il più delle volte pare un lusso che non ci si può permettere.
Così era per me, al lavoro. Partito con grande entusismo in gioventù, felice e perfino orgoglioso del ruolo assegnatomi, con il passare degli anni tutto il contesto era cambiato, e purtroppo in peggio. Sorvolo in questa sede sui dettagli, ma nel caos che si era man mano creato, lavorare pareva sempre più una corsa a perdifiato priva di una direzione plausibile.
Ma mentre ero lanciato nel meccanismo quotidiano del lavoro, non riuscivo a cogliere del tutto ciò che stava succedendo; tutto era veloce, consequenziale, programmato. Tutto era faticosamente naturale, e non concepivo neppure il fato di fermarmi per più di qualche giorno: le classiche ferie.
Uno spiacevole imprevisto
Solo che a volte il meccanismo ha degli imprevisti; quel macchinario che sforna pezzi di vita tutti uguali ha qualche elemento che si mette di traverso, così che il mezzo meccanico fa uno sforzo anomalo, e fa “crac”.
Per me il “crac” fu anni fa in occasione di una visita ad una parente di mia moglie, in un paesino sulla montagna marchigiana, alla fine di una bella vacanza al mare . Era la festa del paese, e venne organizzata, in un bellissimo pomeriggio di fine estate, la classica partita “scapoli-ammogliati”. Accettai subito l’invito a partecipare, felice di tornare, dopo tanti anni, a calcare un campo di gioco ed a contendermi la palla con gli avversari.
Era l’inizio del secondo tempo. Sul versante sinistro del campo, stavo per crossare a beneficio dei miei compagni, quando un ragazzino di non più di tredici anni, nel tentativo di contrastarmi, mi arrivò addosso in piena corsa, picchiando con la sua spalla contro la mia clavicola destra. Prima di essere sbalzato a terra dall’urto, feci in tempo ad udire un “crac” al centro dell’osso.
Partita finita
Mi resi conto di cosa fosse successo quando provai a rialzarmi, e nei minuti immediatamente successivi, di cosa significhi l’espressione “piangere dal male”…dopo una nottata d’inferno ed un viaggio di ritorno tormentato (in cui guidò mia moglie perchè io non ero in grado), rientrati a casa mi fu diagnosticata una frattura della clavicola, fortunatamente composta.

Ne è risultata la prescrizione, da parte dei sanitari del pronto soccorso, di un periodo di prognosi di un mese, che poi si sarebbe prolungato ad oltre due, con la convalescenza e la necessaria riabilitazione.
Bloccato a casa
Dopo la prima settimana, trascorsa più che altro a sopportare una certa dose di dolore, l’attenzione si è spostata su altro. Col passare del dolore, si è creato lo spazio naturale per pensare. Per pensare sul serio, intendo. Per la prima volta dopo tanto tempo, infatti, avevo un sacco di tempo a disposizione, per guardarmi dentro, fare bilanci, ma non solo.
Il fatto è che mi rendevo conto che quella pausa forzata, che mi impediva fisicamente di andare al lavoro, mi stava obbligando a concentrare l’attenzione sul disagio che stavo provando dentro di me. In pratica era quell’episodio, quel “crac”, che mi stava dando la possibilità di fermarmi da quella quotidianità fatta di orari di treni, scorni di lavoro, lamentele di utenti, ansia per obiettivi da raggiungere.
Nella vita ci arrivano dei messaggi. La parte profonda di noi ci comunica delle cose. E sono convinto che dovremmo trovare, nei limiti del possibile, il coraggio di fermarci, anche solo per alcune settimane, per poter ascoltare. Ma di fatto non lo facciamo, vuoi perchè il contesto lavorativo di certo non ci favorisce, vuoi perchè non abbiamo nella nostra cultura il concetto di “pausa”. Se ci fermiamo, siamo in difetto.
E così, paradossalmente, un fatto oggettivamente spiacevole come un doloroso incidente, che suona come una sorta di decisione “presa dall’alto”, un “cartellino rosso” che ci pone per un po’ fuori dal gioco, diviene un’occasione preziosa per avere a disposizione quel tempo che non vogliamo, o possiamo, trovare altrimenti.
Insomma, per me quella convalescenza fu molto importante, perchè fece emergere molti elementi su cui riflettere; e quel ragazzino lo devo proprio ringraziare.