Il rischio di restare nel porto per sempre
Quando si affronta un cambio di vita, la fase iniziale, in cui si deve cominciare a mutare davvero i propri comportamenti di vita, è spesso la più complessa.
Ne ho fatto esperienza personalmente. Spesso la decisione di operare mutamenti nella propria vita è spinta da una molla potente, che trae la sua energia da un lato dal disagio profondo che si prova quotidianamente, ad esempio sul lavoro, dall’altro dal prefigurarsi una situazione migliore di quella che si sta vivendo nel presente.
In altre parole vive di un’idea, magari abbozzata, di quella che dovrebbe essere una vita soddisfacente. E se man mano quell’idea, che si è insinuata nella mente piano piano, prende corpo e si precisa, allora diviene un progetto vero e proprio, sempre più strutturato, che implica uno scopo, una via.
Un percorso complesso
Si potrebbe pensare quindi che una volta individuata la direzione in cui procedere, il cambiamento parta d’impeto, con grande energia. Ma spesso così non è.
Il fatto è che le abitudini si radicano dentro di noi, in profondità. E soprattutto, se queste abitudini agganciano il nostro bisogno di sicurezza, ben si comprende come sia difficile distaccarsene. Ma un cambiamento di vita non è mai una passeggiata, ed implica mutamenti profondi: non si può introdurre il nuovo senza gettare via parti importanti del nostro vecchio contesto.
Per me personalmente, il cambio di vita professionale sta implicando il dover rinunciare ad un lavoro a tempo indeterminato nella pubblica amministrazione, un lavoro che mi garantiva un’entrata sicura mensile da quasi vent’anni. Non è strano che la mia mente fino a quel momento considerasse quella dinamica professionale come la norma, ritenendo automaticamente un’anomalia ogni altra soluzione di vita.
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La paura dell’ignoto
La mente si ribella, e la mia non fa certo eccezione, all’idea di abbandonare un contesto sicuro per sostituirlo con un altro che sicuro lo è meno, anche se quest’ultima esperienza promette sensazioni diverse, fosse pure solamente una gratificazione a livello interiore.
Il porto dove la nave giace ricoverata al riparo dei flutti, è un’immagine che piace a tutti, nessuno escluso. Ed è a mio parere uno dei maggiori nemici del cambiamento per persone che come me, possedevano un contesto insoddisfacente, ma chiaramente ripetitivo ed a basso rischio; una situazione, insomma, che garantiva una vita sicura, seppur monotona nella sua assoluta mancanza di novità e prospettive.
Quindi, se il nostro porto è sicuro, cosa può convincerci a navigare di nuovo ? Cosa può spingerci ad affrontare nuovamente il mare ?
Occorre una motivazione forte, che di rado, soprattutto a cinquant’anni e più, può essere la voglia di avventura. Spesso però, è una sua stretta parente. Nel mio caso si potrebbe definire un disperato bisogno di nuovi stimoli, una gran voglia di qualcosa di nuovo. Forse però non basta, d’accordo.
Molto spesso accade che il lavoro in cui hai creduto sinceramente per molti anni non sia più lo stesso, che il contesto porti le persone ad essere insoddisfatte, tese, aggressive. Che l’ambiente sia divenuto poco a poco sempre meno sereno, al punto che ti domandi a che scopo, stipendio a parte, ti rechi in quel luogo che pare assomigliare sempre più ad un’arena di gladiatori sfigati.
Il porto così tranquillizzante si stava via via trasformando in un luogo chiuso ed opprimente.
Forse è questo il punto importante: occorre essere molto franchi a proposito del porto in cui si è attraccati, e non mentire a sé stessi sul fatto che il luogo che rispondeva alle nostre esigenze anni fa, sia ancora adatto a noi, possa ancora darci qualcosa in termini professionali ed umani.
E se sentiamo che ci sta insopportabilmente stretto, forse vale la pena di considerare una nuova meta, pur dovendo correre qualche rischio.
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